La Quarta Guerra Mondiale, la prima guerra “lobale”, internazionale e transnazionale della Storia (4)
Quarta parte dell’analisi geopolitica sul conflitto avviato simbolicamente l’11 Settembre 2001. 2. La “nuova guerra”: 2.1. Le relazioni transnazionali; 2.2 al-Qaeda come attore “significativo”. L’articolo riporta il contenuto di un paper (La IV Guerra Mondiale, la I Guerra “lobale”), oggetto di discussione in un Master per Esperti della Cooperazione e della Sicurezza Internazionale seguito nel 2001-2002, la cui fondatezza è a nostro avviso ancora valida. Il 18 agosto scorso, Papa Francesco ha parlato di Terza Guerra Mondiale. Vi spieghiamo perché siamo alla Quarta e perché è difficile capire che questo terrorismo islamista è una “nuova guerra”, transnazionale e internazionale, la prima della Storia, Iniziata almeno con le “Lettere Ladenesi”, la “Dichiarazione di Guerra” di Osama bin Laden agli Stati Uniti e all’Occidente, emessa giusto 21 anni fa. Un tema che abbiamo trattato nel paper di un master seguito nel 2003, la cui fondatezza è a nostro avviso ancora valida
(segue)
2.1. Le relazioni transnazionali
Robert Keohane e Joseph Nye hanno compiuto l’analisi più completa delle relazioni transnazionali (cfr. Robert Keohane, Joseph Nye, Transnational Relations and World Politics, Harvard University Press, Cambridge, 1972). Attraverso il loro lavoro, i due studiosi americani hanno evidenziato come, fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la maggior parte delle relazioni internazionali siano avvenute tra gli Stati-nazione, protagonisti quasi esclusivi della scena internazionale.
Le guerre internazionali, le comunicazioni internazionali, il commercio e la finanza internazionale, l’attività diplomatica, sono stati alcuni dei settori in cui lo Stato-nazione ha avuto un ruolo prevalente, se non esclusivo.
La realtà contemporanea è caratterizzata invece dall’aumento vertiginoso delle relazioni che coinvolgono attori non governativi, individui, gruppi e organizzazioni. Questo tipo di interazione sono «interazioni transnazionali» (Ivi, p. XII), di cui Keohane e Nye forniscono una precisa definizione: «una interazione transnazionale può coinvolgere i governi, ma non coinvolge solo governi: anche attori non-governativi devono svolgere un ruolo importante. Parliamo di comunicazioni, trasporti, finanza e viaggi transnazionali quando ci riferiamo a interazioni attraverso i confini degli Stati di tipo non-governativo o solo parzialmente governativo».
Per Robert Keohane e Joseph Nye le interazioni transnazionali individuano il «movimento di items tangibili o intangibili attraverso i confini statali quando almeno un attore non è un agente del governo o una organizzazione intergovernativa» (Ibidem). Ne consegue che i processi transnazionali comprendano «tutti quei rapporti che si svolgono su scala mondiale senza il supporto degli Stati» (cfr Riccardo Scartezzini, Paolo Rosa, op. cit., p. 50) e possono essere raffigurati con un grafico (Fig.1).
Nella Fig. 1, la linea continua rappresenta i rapporti interstatali, ossia quel tipo di interazioni che hanno per protagonisti attori statali sia in via diretta che per via mediata da organizzazioni intergovernative (politica estera e politica internazionale: relazioni G1<->G2; G1, G2, Gx<->OIG); la linea tratteggiata rappresenta invece l’ambito delle relazioni nazionali, in cui c’è uno scambio continuo tra il governo e la società di quel dato Paese considerato (G1<->S1; G2<->S2; Gx<->Sx); infine, la terza relazione, è identificata con il tratto punto-linea e raffigura le relazioni transnazionali (G1<->S2, SX; S1, Sx<->OIG; etc).
Il progresso tecnologico, il miglioramento delle reti di trasporto e delle reti di comunicazione hanno favorito senza dubbio le relazioni transnazionali, nel cui ambito organizzazioni internazionali non-governative, movimenti sociali variamente ramificati e collegati tra loro, gruppi terroristici internazionali, associazioni di volontariato, imprese multinazionali e movimenti religiosi di matrice integralista contrastano quotidianamente l’azione degli Stati-nazione, di cui c’è sempre meno evidenza.
L’analisi di Keohane e Nye ha perciò proposto il superamento della logica statocentrica nello studio delle relazioni internazionali, da almeno tre punti di vista.
La prima considerazione ruota attorno al ruolo e alla rilevanza delle azioni degli attori statali e di quelli transnazionali.
L’approccio tradizionale ha considerato l’azione governativa come predominante su quella degli attori transnazionali nel plasmare le relazioni internazionali. Per Keohane e Nye questo non è sempre vero, perché nonostante i governi abbiano una disponibilità di risorse certamente maggiore e godano della legittimità popolare (nei Paesi democratici dove questo accade), è vero anche che tale dimensione emerge solo nel caso di un confronto/scontro tra governi e attori transnazionali, mentre nella generalità dei casi l’interazione non arriva mai alle estreme conseguenze.
L’azione di contrasto dei governi verso l’attività transnazionale di individui, gruppi o organizzazioni può risultare a volte molto costosa, sia in termini di impiego di risorse finanziarie e umane, sia nel senso di mettere in pericolo l’autonomia dell’azione governativa, a causa della forza dell’attore transnazionale con cui si interagisce. Classico esempio è quello illustrato da Stephen Hymer (cfr. Le società multinazionali e la legge dello sviluppo diseguale, in L. Ferrari Bravo, a cura di, Imperialismo e classe operaia multinazionale, Feltrinelli, Milano, 1975): la relazione tra imprese multinazionali e governi.
Le imprese multinazionali possiedono risorse, economiche, tecnologiche e umane con cui riescono spesso a oltrepassare il controllo legittimo esercitato dai governi nazionali. Questa situazione può accadere sia in ambito fiscale, perché le imprese multinazionali riescono a movimentare capitali tra le loro filiali, senza lasciar traccia e sottraendosi all’esazione delle imposte; sia in ambito proprio della politica economica e monetaria, perché hanno l’abilità di movimentare elevati flussi finanziari, attraverso cui sono capaci di modificare la quantità di moneta circolante nel paese.
Il secondo motivo per abbandonare l’ottica statocentrica nello studio delle relazioni internazionali è – per Keohane e Nye – il riconoscimento che le interazioni transnazionali hanno oggi una rilevanza molto maggiore che nel passato.
I critici del transnazionalismo sostengono che le relazioni transnazionali sono sempre esistite e che non è il caso di attribuire ad esse una rilevanza maggiore. La fase attuale della politica mondiale, invece, presenta secondo Keohane e Nye elementi di assoluta novità rispetto al passato, perché l’interconnessione globale è cresciuta e le interazioni transnazionali riescono a limitare le scelte legittime dei governi in modo assolutamente imparagonabile al passato. Insomma, la globalizzazione ha veramente posto le basi per la realizzazione del villaggio globale teorizzato da McLuhan.
La terza considerazione di Keohane e Nye riguarda il rifiuto della distinzione tra “alta” e “bassa” politica, propria dei critici del transnazionalismo, i quali sostengono che le interazioni transnazionali incidono su fenomeni politici di bassa rilevanza, mentre la dimensione diplomatica e militare non è influenzata dalle dinamiche proprie delle relazioni transnazionali.
Questa considerazione è rifiutata dai due studiosi del transnazionalismo, sulla base dell’osservazione che il mondo contemporaneo è caratterizzato dalla rilevanza acquistata dalle interazioni transnazionali anche nella sfera della sicurezza e della diplomazia e come oggi sia difficile distinguere se una questione ha rilievo militare, politico o economico.
Si pensi, al riguardo, al ruolo svolto da organizzazioni non-governative nella risoluzione delle crisi, come quello svolto dalla Comunità di S.Egidio in Mozambico, fino al raggiungimento di un accordo che ha posto fine ad anni di scontri armati tra truppe regolari e ribelli della RENAMO. Invero, alla Comunità di S.Egidio sono state rivolte critiche per il fatto di svolgere mediazioni spesso contrastanti con la linea ufficiale del Governo. Altrettanto vero è, però, che sovente il Governo italiano si è avvalso in passato di tre canali operativi nei rapporti internazionali: diplomazia ufficiale della Farnesina, Comunità di S.Egidio e Vaticano.
Sulla base di questo ragionamento, Keohane e Nye hanno introdotto un nuovo criterio di individuazione delle interazioni rilevanti sotto il profilo dell’analisi internazionalistica, quello delle relazioni tra attori significativi.
Un attore significativo è caratterizzato da autonomia, controllo di risorse sostanziali e rilevanti, partecipazione a relazioni politiche che si svolgono trapassando i confini politici degli Stati-nazione.
L’accenno all’analisi di Keohane e Nye ci serve per evidenziare la nostra teoria sulla Quarta Guerra Mondiale.
Le sfide alla sicurezza e alla pace mondiale non provengono necessariamente dalle minacce perpetrate da altri attori statali, ma più probabilmente dall’azione di attori significativi, quali gruppi terroristici, criminalità organizzata, movimenti di liberazione, frange religiose integraliste.
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2.2 Al-Qaeda come attore significativo.
Quando il mondo ha scoperto di essere sotto attacco, la mattina dell’11 settembre 2001 – ora della East Coast nordamericana, il panico avrebbe potuto dilagare, prendere il sopravvento. Sebbene vi siano stati ritardi di reazione nel processo decisionale, questo crollo non è avvenuto.
Gli americani, colpiti per la prima volta sul loro territorio dalla Guerra di Indipendenza, dimostrarono un grande senso di maturità. La bandiera a Stelle e Strisce fu sbandierata con la stessa forza mediatica con cui i membri del commando di Al-Qaeda impattarono sulle Torri Gemelle del World Trade Center di New York, abbattendole. Con la stessa capacità di attrattiva militare e mobilitante con cui colpirono il Pentagono e progettarono di gettarsi sulla Casa Bianca, la casa della democrazia americana.
Mohammed Atta (per un profilo di Mohammed Atta, cfr. Peter L. Bergen, Holy War Inc., Mondadori, Milano 2001, p. 51.) e compagni si abbatterono sui grattacieli a Manhattan e in questo modo dichiararono guerra al mondo civile.
Allo stesso modo, le bandiere a Stelle e Strisce furono innalzate per dichiarare la resistenza contro il terrore globale. Anzi, si può dire che la resistenza fosse iniziata già durante l’attacco, se è vero che l’Occidente vinse la prima battaglia della Quarta Guerra Mondiale, grazie al metodo democratico. Infatti, oggi – a distanza di 13 anni, non sembrano esserci più dubbi sul fatto che la volontà popolare coagulò la forza dei passeggeri del Volo 93 United Airlines Newark-San Francisco, spingendoli «provare a fermare con la forza i terroristi» (cfr Gianni Riotta, op.cit.). La grandezza della democrazia, la potenza della volontà popolare che ferma sui prati della Pennsylvania l’aereo che i dirottatori dirigevano sulla Casa Bianca.
È il segnale decisivo in uno scenario di lotta anche simbolica e mediatica: la Quarta Guerra Mondiale si vincerà con le armi della democrazia, con la volontà e la capacità di resistere del popolo, contro l’oscurantismo islamista. Scrisse Gianni Riotta: «per chi, a New York e fuori, si è dimenticato quanto fragile e preziosa sia la democrazia, il voto nascosto dei passeggeri è lezione straordinaria». Lo confermarono le registrazioni delle conversazioni telefoniche provenienti dall’aereo, tra cui una drammatica testimonianza del valore della democrazia sul dispotismo: «siamo una banda decisa a tutto […] cercheremo di prendere d’assalto i dirottatori e impedire un’altra strage. Abbiamo votato» (Gianni Riotta, N.Y. … op. cit., p. 23).
Un voto contro l’irrazionalità della morte che genera morte. Una lezione per chi “vende” il proprio voto, la sublimazione politica e istituzionale della cittadinanza e del ruolo di ciascuno di noi con la società cui apparteniamo.
In ogni guerra la fase dell’identificazione del nemico è preliminare a ogni azione politica finalizzata al combattimento: questo dato cognitivo necessita dell’attivazione di un complesso sistema di decision making che riguarda molte dimensioni: finanziaria, diplomatica, l’ambito politico interno e, infine, la dimensione militare. Si deve sapere contro chi, perché, per cosa e come combattere. «Con la IV Guerra Mondiale le cose cambiano, trattandosi di un conflitto atipico e non convenzionale» (Aldo Musci, op. cit., p. 140-1), globale.
La globalizzazione – vera posta in gioco del conflitto – è il terreno stesso su cui si svolge la battaglia. Non ci sono nemici individuabili. Non ci sono ambasciatori da cui aspettarsi le dichiarazioni di guerra. Non ci sono regole. O meglio, è richiesto solo agli Stati civili attenersi alle regole: è come un incontro di box alla cieca, in cui uno dei due boxeurs ha un braccio legato dietro la schiena.
Il mondo ha ereditato Osama bin Laden dalla Terza Guerra Mondiale o, più precisamente, dall’ultimo episodio di quella lunga guerra, esiziale per i sovietici. La storia e le controversie teorie sulla genesi della potenza del miliardario saudita sono note. Ma è significativo, nell’economia di questa analisi, comprenderne i primi passi verso l’islamismo militante, che ebbe una radice teorica molto forte.
«I primi carri armati dell’Armata Rossa, chiamata ufficialmente dal governo afgano, attraversano il ponte sul fiume Amudarrya nella notte fra il 26 e il 27 dicembre del 1979. Inizia quello che fu definito “il Vietnam sovietico”» (http://www.centro-peirone.it/Alhiwar/2001/1_05/501_04.htm). Bin Laden era in quei momenti a Karachi, ospite di un palestinese, Jamaat Ismail, oggi giornalista, allora studente. Ismail lo portò a Peshawar, quartier generale della resistenza islamica, grazie all’azione politica di «un professore palestinese di nome Abdallah Azzam, il quale creò un’efficiente struttura logistica per sostenere i combattenti di Allah, meglio conosciuta come Al-Qaeda al-Sulbah, la Solida Base» (Aldo Musci, op. cit. p. 141).
Adhallah Azzam era stato maestro di bin Laden all’università “Re Abdul-Aziz” di Gedda, insieme a Muhammed Qutb, fratello del più noto Sayyid Qutb, autore di un’opera fondamentale per i teorici dell’islamismo revanchista, Ma’alim fi’l-tariq (tradotto in inglese con il titolo “Signposts on the Road” o “Milestones”. Cfr. Sayyid Qutb, Milestones, Paperback Ed., 2003; disponibile in inglese qui).
All’epoca, la frequenza di Muhammed Qutb e di Adhallah Azzam consentì al giovane Bin Laden di avvicinarsi al movimento al-Ikhwan al-Muslimun, i “Fratelli Musulmani,” al potere in Egitto fino all’azione dell’Esercito nel 2013, mossosi dietro la spinta di 33 milioni di firme di egiziani di ogni confessione religiosa o orientamento politico, richiedenti la rimozione del “fratello musulmano” Mohammed Morsi.
Il movimento dei “Fratelli Musulmani” gu fondato «nel 1928 da un maestro elementare, Hasan al-Banna» (Albert Hourani, Storia dei popoli arabi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1992, p. 348. Titolo originale A History of the Arab Peoples, Warner Books, New York 1992) con fini non esclusivamente politici: in un ambiente simile, bin Laden si abbeverò dei testi chiave dell’islamismo integralista. Il nipote di Hasan al-Banna è Tariq Ramadan, intellettuale svizzero teorico della superiorità della civiltà islamica in un Occidente smarrito.
Bin Laden rimase affascinato dal messaggio di Sayyid Qutb, che nel suo Ma’alim fi’l-tariq aveva denunciato lo stato in cui le società islamiche si trovano come di jahiliyyah (lo stato di ignoranza pagana, propria delle società arabe precoraniche) e aveva indicato le linee guida per gli attivisti che desiderassero ritornare al vero Islam, ossia a una società fondata sulla parola divina.
Nell’altra fondamentale opera dell’egiziano, al-‘Adala al-ijtima’iyya fi’l-islam (letteralmente “La giustizia sociale nell’Islam”; titolo originale The Social Justice in Islam, trad. di John B. Hardie, Octagon Books, New York 1970), scritta nel 1949, vi sono i fondamenti per la vera giustizia: una società in cui non si possa distinguere la fede e la vita, perché tutte le azioni umane devono essere «considerate azioni di culto» (Albert Hourani, op. cit., p. 397) dunque fondate sul Corano e gli Hadith.
Ai tempi dell’invasione irachena del Kuwait, bin Laden aveva scritto alla famiglia al-Saud, proponendosi come difensore della dinastia wahabita e del regno con i suoi mujahidin. La famiglia regnante saudita non lo prese in considerazione e il miliardario reagì in modo non convenzionale: mosse studiosi e giureconsulti musulmani perché emettessero una fatwa che interpretasse l’addestramento e la militanza come doveri per ogni musulmano. La fatwa fu fatta circolare ad arte ed ebbe successo: bin Laden riescì a raccogliere oltre 4000 volontari, che partirono per i campi di addestramento di al-Qaeda in Afghanistan. La famiglia regnante reagì prima con moderazione, poi con forza, inviando la Guardia Nazionale nel podere di Jeddah della famiglia bin Laden.
Da quel momento, bin Laden coagulò i sentimenti antiamericani presenti in molti anfratti politici del Medio Oriente e programmò di trasformare al-Qaeda in una rete planetaria combattente per il jihad, per l’instaurazione di un puro Islam, contro gli americani e gli ebrei.
Osama bin Laden fu riconosciuto come mandante del primo attentato alle Twin Towers del World Trade Center nel 1993, per cui venne incriminato insieme allo sceicco cieco Omar Abdel Rahman e a Ramzi Yousef, organizzatori ed esecutori materiali. Tutti furono condannati all’ergastolo. L’intelligence americana sapeva che Ramzi Yousef, uomo di Bin Laden, stesse progettando nello stesso periodo di «far precipitare sulla sede della CIA un aereo imbottito di esplosivo» (Bob Woodward, op. cit, p. 8). Nel tempo seguì una serie di attacchi, prima dell’11 settembre.
Non è questa la sede per ricordarli uno per uno: solo un accenno per sottolineare il fatto che la concatenazione dei fatti deve essere iscritta in una logica di escalation, favorita anche dagli insuccessi, dalle incapacità politiche di prevenire – con mezzi appropriati – tragedie maggiori.
Il divieto imposto alla HUMINT (Human Intelligence) statunitense di compiere assassinii mirati in operazioni di controterrorismo o di cospirare per l’eliminazione fisica di criminali internazionali, nell’impossibilità acclarata di condurli di fronte a una corte giudiziaria e farli condannare grazie a prove inoppugnabili (Executive Order 12333 del 1975 in QUI), ha avuto senza dubbio un grande valore etico e politico: manifestava il rispetto per i principi fondanti degli Stati Uniti d’America e quel Bill of Rights che costituisce la spina dorsale giuridica statunitense.
L’habeas corpus vale per tutti, compresi i sospetti terroristi (con qualche eccezione): questo era il grande messaggio e il valore democratico del presidente che aveva sconfitto l’URSS. Una grande operazione di immagine, in puro stile reaganiano, per smentire le accuse e le strumentalizzazioni sul supposto imperialismo americano.
Ma era una decisione appartenente a un’altra epoca storica.
Quell’ordine presidenziale svelò la debolezza del sistema statunitense nel combattere Osama Bin Laden. Come ha ricordato Woodward (op. cit., pp. 5-7) la CIA, nel 1999, fu – a più riprese – nella condizione di neutralizzare (assassinare) lo sceicco saudita e la sua corte nelle lande desolate dell’Afghanistan, con almeno un gruppo di 30 agenti operativi.
L’operazione aveva un nome in codice: GE/SENIORS. I SENIORS furono però fermati dal capostazione CIA di Islamabad, perché l’assassinio di bin Laden avrebbe violato la legge americana. Del resto, George Tenet, nominato da Bill Clinton capo della CIA (e poi confermato da Bush Jr), mai sollecitò il vertice dell’esecutivo statunitense affinché si emettesse un “contrordine” che consentisse un’operazione del genere.
Era nota l’opposizione di Clinton a qualunque azione in cui si potessero registrare vittime innocenti. Solo azioni tanto mediatiche, quanto inutili e improduttive: «“spalare sabbia” era l’espressione derisoria usata da George W. Bush per descrivere i deboli sforzi dell’amministrazione Clinton: missili Cruise contro le tende e cosi via» (Bob Woodward, op. cit., p. 115).
Va invece rilevato che George Bush intese – fin dall’inizio del proprio primo mandato presidenziale – imprimere alla guerra contro il terrorismo un indirizzo diverso.
Il 13 settembre 2001, durante una riunione del National Security Council nella Situation Room della Casa Bianca, Bush rispose al Segretario alla Difesa, Ronald Rumsfeldm e al presidente dei Capi di Stato Maggiore Riuniti (Chairman Joint Chiefs of Staff) Hugh Shelton: «non intendo lanciare un missile da un milione di dollari su una tenda da cinque dollari» (Cit. in Bob Woodward, op. cit., p. 60). Quante morti innocenti si sarebbero evitate, se il Presidente Clinton avesse preso decisioni forse meno aderenti al dettato legale in senso stretto, ma più pragmatiche verso il problema Bin Laden?
Nel decennio 1990-2000, il miliardario saudita impiegò incredibili risorse finanziarie per costituire un network mondiale capace di sfidare qualunque Stato – perfino la superpotenza americana – nel progetto verso il raggiungimento dei suoi obiettivi strategici. Egli elaborò, pian piano, l’idea di poter sfidare gli Stati Uniti d’America anche nell’agone che – fino ad allora – era ritenuto terreno esclusivo degli attori statali: la guerra.
Premessa indispensabile per comprendere intimamente il processo di elaborazione di questa strategia, è comprendere che l’azione di Bin Laden è interpretabile alla stregua di un investimento industriale, con annessa scalata azionaria. Egli impostò, al tempo della guerriglia islamica antisovietica, l’idea che si potesse ridare vita all’Impero Islamico e che per conseguire questo obiettivo occorresse impostare una strategia di lungo periodo, fondata e avviata da uno Stato islamico.
Sarebbe stato necessario dunque impossessarsi di uno Stato: una logica imperiale islamica avrebbe necessitato un impero territoriale, che unisse tutti i territori islamici, dall’Indonesia al Marocco, compresi i territori già appartenenti all’Impero Islamico (quindi anche il Meridione d’Italia e l’Andalusia spagnola). Tutto questo a partire da uno Stato. Vedremo in seguito che questa idea è mutuata dai suoi maestri islamisti.
Nel piano di bin Laden si pose il quesito di non facile soluzione: qual è il piano migliore per impossessarsi di uno Stato?
L’invasione classica era esclusa, probabilmente solo perché bin Laden non avesse a disposizione una quantità di uomini tale da rendere realizzabile un’operazione da fanteria. Osama bin Laden elaborò allora una strategia d’invasione strisciante, ispirata ai propri trascorsi finanziari e borsistici.
Quando decise di trasferirsi in Afghanistan, e di dedicare la propria esistenza e le proprie ricchezze alla fede islamica, in realtà impostò quella strategia di lungo periodo per ricostituire l’Ummah islamica su basi mondiali, ossia per islamizzare il mondo.
Per questo piano più generale era necessario ricostituire un vero Califfato (caduto e dissolto con la sconfitta dell’Impero Ottomano alla fine della I Guerra Mondiale).
Al-Qaeda – fondata nel 1989 con l’obiettivo fondamentale di dare alla costituenda rete globale del jihad un centro di raccolta delle informazioni – inizialmente assunse i connotati di un ufficio di assistenza per i mujahidin provenienti da ogni parte del mondo. Questi ultimi, infatti, una volta arrivati a Peshawar erano assistiti dal Makhtab al-Khidmat di Azzam e dal Beit al-Ansar di bin Laden: si temevano infiltrazioni soprattutto da parte dei servizi mediorientali, considerato che «probabilmente la CIA non dispone di un singolo agente di origine mediorientale davvero qualificato che parli l’arabo, [e] sia credibile nel ruolo di fondamentalista» (Ruel Gerecht, The Counterterrorist Myth, in «The Atlantic Monthly», jul-aug 2001, cit. in Peter L. Bergen, op. cit., p. 299. L’articolo originale può essere letto in http://www.theatlantic.com/issues/2001/07/gerecht.htm).
Al-Qaeda in quel momento fu riservata alla cerchia più ristretta dei jihadisti, servendo anche alla registrazione degli arrivi negli ostelli, degli spostamenti verso i campi di addestramento e per distinguere gli elementi impegnati in azioni di assistenza dai veri e propri mujahidin.
La storia dell’Afghanistan dopo il ritiro dei sovietici nel 1989 s’intrecciò con quella di bin Laden, il quale comprese che proprio lo stato asiatico potesse essere la base di partenza del suo progetto geopolitico, il Califfato.
Il 4 novembre 1994, in uno scontro nei pressi di Kandahar, i taliban (studenti di teologia coranica) comparvero per la prima volta sulla scena militare, come gruppo armato che dichiarava di proteggere la libertà di traffico e di transito in Afghanistan.
Il 26 settembre 1996, i taliban, guidati dal Mullah Mohammed Omar Akhondzada conquistarono la capitale Kabul: il presidente Rabbani e il primo ministro Hekmatjar si diedero a precipitosa fuga, mentre l’ex presidente Mohammad Najibullah veniva impiccato a un lampione ed esposto al pubblico ludibrio per alcuni giorni.
Le truppe talebane erano affiancate dalla Brigata 055 (la brigata araba di Al-Qaeda).
Nell’ottobre del 1997, la denominazione ufficiale dell’Afghanistan diventò quella di Emirato Islamico dell’Afghanistan. Al-Qaeda aveva contribuito in maniera significativa al raggiungimento di questo obiettivo.
Il regime dei talebani del Mullah Omar fu oggetto di ripetute attenzioni internazionali: ben 17 risoluzioni furono approvate approvate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro il regime teocratico fondamentalista di Kabul (Cfr. United Nations, Security Council documents, http://www.un.org/documents/scres.htm).
La conquista dell’Afghanistan da parte dell’organizzazione di Osama bin Laden e l’evoluzione del jihad globale seguirono due percorsi paralleli, che meritano una distinta attenzione.
(continua)
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Nota: per un errore tecnico, alcuni link ai precedenti articoli non funzionavano. L’errore è stato corretto, ci scusiamo con i lettori per l’inconveniente
Il primo articolo è stato pubblicato il 23 Agosto 2014
Il secondo articolo è stato pubblicato il 29 Agosto 2014
Il terzo articolo è stato pubblicato l’11 Settembre 2014
Il quarto articolo è stato pubblicato l’11 Settembre 2014
Il quinto articolo è stato pubblicato il 16 Settembre 2014
Il sesto articolo è stato pubblicato il 23 Settembre 2014